VENEZIA: WANG BING RACCONTA I ‘MATTI’ IN CINA
Le emozioni, i ritmi sempre uguali, la mancanza di libertà, le paure, i rifiuti, la solitudine, e soprattutto la ricerca d’amore, senza moralismi, in un manicomio maschile del sud della Cina dove ”quando il tempo si ferma, appare la vita”.
Tante storie di persone affette da disagio mentale, dal semplice emarginato all’assassino, che il cineasta cinese Wang Bing, vincitore l’anno scorso al Lido del premio per la sezione Orizzonti con Three sisters, raccoglie nelle 3 ore e 48 minuti di Feng Ai (‘Til Madness Do Us Part’) il documentario presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. ”All’inizio avevamo paura della reazione che avrebbero potuto avere i pazienti a vederci girare. In realtà giusto all’inizio si chiedevano perché uno sconosciuto venuto dal nord stesse lì tutti i giorni. Ma c’è voluto poco per abituarsi. Dopo una settimana ho deciso su quali dei malati concentrare il racconto – dice il cineasta, abituato a girare con troupe all’osso e minime risorse -. Ho creato con loro un rapporto, non li vedevo più come malati, quando parlavamo era come fare tranquille conversazioni con vecchi amici. Solo una volta uno dei malati ha assalito l’operatore, in un momento di crisi, ma poi si è subito scusato”. Per Wang Bing è fondamentale ”quando faccio documentari non disturbare, manipolare o interrompere ciò che si vede. Si deve entrare nella vita di chi racconti”. Il regista, classe 1967, considera il cinema ”materiale video che crea la propria forma attraverso corpi e oggetti. Un mio obiettivo è aiutare le persone di cui parlo a esprimere quella bellezza”.
I suoi film, girati a volte senza il permesso delle autorità, come Il fossato (in gara a Venezia nel 2010) sui campi di lavoro forzato dove furono rinchiusi i dissidenti negli anni ’50, ”non hanno distribuzione in Cina. Qualcuno ha potuto vederli a casa propria su dvd pirata…all’estero, in paesi come Francia e Giappone, invece arrivano”.